L'eccentrica, discutibile personalità di Genet - lo scrittore-pederasta, il detenuto romanziere poeta e drammaturgo autodidatta - ha fatto spesso parlare di lui soltanto come del poeta "maledetto", dell'esaltato cantore del vizio e dell'assassinio, della malavita e della prostituzione, mettendo in secondo piano gli elementi strutturali significanti, le ragioni native e i procedimenti costruttivi di un'arte che è insieme simbolica e pedagogica. In effetti i romanzi di Genet, scritti tutti tra il 1942 e il 1949 e di cui qui vengono presentati i primi due, costituiscono un insieme unitario, una tormentata ininterrotta avventura che ha come unico protagonista l'autore stesso. "La mia vita" egli ha scritto "deve essere leggenda e la sua lettura far nascere quell'emozione nuova che io chiamo poesia". In questa chiave, i personaggi-idolo del suo mondo omossessuale, il vizio e l'abiezione che lo popolano non servono che a motivare quell'aspirazione a una santità rovesciata, quella ricerca dell'assoluto attraverso i notturni labirinti del male che al di sotto della smagliante superficie verbale rivelano un'esperienza generosamente vissuta nel segno dell'autentico.